«Ferma con quelle tue mani il treno Palermo-Francoforte
Per la mia commozione c’è una ragazza al finestrino
Gli occhi verdi che sembrano di vetro
Corri e ferma quel treno, fallo tornare indietro».
Cantava così l’indimenticato Lucio Dalla in “Balla, balla ballerino” nel settembre del 1980. Il riferimento –più o meno esplicito – è a quanto accadeva circa un mese prima nella stazione della sua Bologna. Quel treno non si è fermato e quel “ballerino”, con la sua danza armoniosa e incessante, non è riuscito neppure ad attenuare la potenza devastante della bomba.
Sono le 10,25 di sabato 2 agosto e quella bomba esplode nella sala d’aspetto della seconda classe, sprigionando tutta la sua ferocia. L’ala sinistra della stazione crolla inesorabilmente, 85 persone muoiono e altre 200 rimangono ferite: la strage più grave che l’Italia abbia conosciuto nel secondo dopoguerra.
La strage è “nera”: su questo non sembrano esserci dubbi fin dall’inizio. Lo scrive anche il Corriere della Sera il giorno dopo in prima pagina, lo stesso quotidiano che poco meno di 11 anni prima, dopo la strage di Piazza Fontana, aveva ostinatamente sponsorizzato la tesi della “pista anarchica”. Eppure c’è subito qualcosa che sfugge, una ricostruzione debole e monca, di cui manca soprattutto la testa. E infatti ci sono voluti ben 7 anni prima dell’inizio di un dibattimento processuale; c’è voluto un intero settore del SISMI per mettere in atto un depistaggio sistematico della vicenda; c’è voluto un Presidente della Repubblica (Francesco Cossiga) per avallare la fantasiosa ipotesi della bomba come “incidente” di gruppi della resistenza palestinese operanti in Italia. Ma soprattutto, ci sono voluti 40 anni e ben 3 processi per non avere ancora nessun mandante “ufficiale” di questa strage.
Sebbene il concetto assoluto di “verità” non ci abbia mai appassionato, nelle vicende legate alla strage di Bologna emerge in maniera lampante lo iato tra una “verità giudiziaria” e una “verità politica”. Nessuna inchiesta e nessun processo è mai riuscito a ricostruire in maniera limpida quel filo strategico che legava Piazza Fontana con Bologna, che è passato – tra le altre – per la strage di Gioia Tauro, quella di Piazza della Loggia a Brescia e quella dell’Italicus; e in generale con il “clima” di quel periodo.
In molti l’hanno definita “strategia della tensione”, ma perché questo concetto assuma un senso storico pieno, capace di assolvere alla funzione che Tucidide dava alla storia stessa («bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro»), non possiamo permetterci che venga derubricato a quel complottismo farsesco che ignora totalmente i processi politici e sociali degli anni in questione.
Ciò che accade tra il 1969 e il 1980, periodo che si sovrappone più o meno con “il lungo ‘68”, ha contorni non lineari, ma le parti in campo sono chiare. Da un lato c’è un tessuto sociale e politico che stacca per la prima volta la spina dell’organizzazione partitica, che immagina un cambiamento radicale dei rapporti di forza e agisce di conseguenza, che “sente” la rivoluzione dietro l’angolo. Dall’altro c’è chi pianifica la “reazione” e la rende disegno operativo, oltre che costrutto ideologico.
Non si tratta, lo ripetiamo, di uno schema che agisce con linearità e secondo regole costruite in vitro, soprattutto perché si immerge nei conflitti reali, viene a contatto con corpi e menti che resistono e desiderano. È qui che entrano in gioco apparati dello Stato (per favore banniamo il termine servizi segreti deviati, ma “deviati” rispetto a cosa?), forze di governo, neofascisti, criminalità organizzata; è qui che i terroristi dei NAR Francesca Mambro e Valerio Fioravanti (a cui, negli altri due processi per la strage, si aggiungono Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini) non giocano solo il ruolo di “utili idioti”, ma diventano pezzi attivi di un gioco di potere comune che aveva un obiettivo dichiarato: governare con il terrore quello che, ai loro occhi, si stava sfaldando grazie alla potenza dei sogni e dei desideri.
A grandi linee accade quello che già era avvenuto nel nostro Paese dopo la Prima Guerra Mondiale, con l’avvento del Fascismo: una conflittualità sociale elevata, i presupposti per una rottura rivoluzionaria e l’alleanza tra le classi del padronato agrario e industriale con gli elementi reazionari di maggior spicco (i fascisti, appunto) per invertire la rotta del cambiamento. La differenza è che allora venne fatto più o meno alla luce del sole, un cinquantennio dopo con il beneficio dell’oscurità.
Solo se abbiamo chiaro questo quadro riusciamo a leggere il ruolo della P2, di Licio Gelli non come elementi alieni o come “il grande vecchio” buono per tutte le teorie complottiste, ma soggetti organici a una postura che il potere costituito andava acquisendo in quegli anni. Ed è anche per questo che la strage di Bologna bussa alle porte del presente, in una fase intrisa di mutazioni e transizioni, ma allo stesso tempo carica di tensioni reazionarie che si muovono a più livelli.
Gli ultimi risvolti della vicenda, che dopo 40 anni apre un nuovo filone di indagini, ci parlano di un “quinto uomo” presente alla stazione di Bologna quel 2 agosto. Si tratta della “primula nera” Paolo Bellini, militante di Avanguadria Nazionale già noto per essere stata una delle pedine chiave nella trattativa Stato-mafia dei primi anni ’90, riconosciuto in un video da sua moglie. C’è voluto il quarantennale per dare alle indagini un quadro che indicasse con chiarezza mandanti e organizzatori. Quello che sta emergendo al momento è che la strage sia stata finanziata dal capo della P2 Licio Gelli e dal banchiere Umberto Ortolani, al centro di vari intrighi finanziari in cui è coinvolta la Loggia, dal “caso Rizzoli” alla bancarotta fraudolenta per il crack Ambrosiano, e abbia avuto come organizzatori materiali Federico Umberto D’Amato, ex capo dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno e figura chiave del Viminale per tutti gli anni ‘60e ’70, e Mario Tedeschi, giornalista ed ex senatore dell’Msi, storico direttore della rivista “Il Borghese”.
Niente di nuovo, dunque: lo Stato e il potere finanziario a tramare, i fascisti a eseguire da bravi mazzieri, ruolo che la storia italiana gli ha cucito addosso a pennello. Manca, però, ancora un quadro d’insieme, un contesto, una motivazione strategica; ma quella non sarà mai la “verità giudiziaria” a fornirla.