Da Pahalgam all’operazione Sindoor: l’escalation tra India e Pakistan diventa guerra

L’escalation diplomatica tra India e Pakistan è diventata conflitto armato. Nove i missili lanciati in territorio pakistano dall’India nell’”operazione Sindoor”. Gli obiettivi dichiarati dell’attacco guidato da intelligence e forze armate indiane sono supposte basi dei gruppi terroristici Lashkar-e-Tayyiba, Jaish-e-Mohammed ed Hizbul Mujahideen. Trentuno i morti finora, centinaia i feriti mentre si continua a scavare tra le macerie.

Tra loro Maulana Masood Azhar, leader di Jaish-e-Mohammed, ammazzato assieme alla propria famiglia mentre era nella moschea di Subhan Allah Mosque, a Bahawalpur, crollata sotto i colpi dei missili. Secondo il governo indiano l’operazione sarebbe mirata a stanare gli avamposti dei gruppi terroristici, dichiarando di non voler causare un’escalation militare pur mettendola in atto.

Poche ore dopo l’attacco il Segretario agli Affari Esteri Vikram Misri, rincara la dose, giustificando il lancio di missili come azione per supplire all’inazione del governo pakistano nell’individuazione dei terroristi; il Ministro degli Interni Amit Shah ha convocato una video-conferenza con i governatori degli Stati indiani al confine con Pakistan e Nepal per incrementare le misure di sicurezza interne ed alla frontiera.

La risposta delle forze armate pakistane è arrivata tempestivamente, con l’abbattimento di cinque jet militari. Due di questi si sono schiantati nelle vicinanze di Srinagar, capitale del Kashmir amministrato dall’India, e nella località di Aknhoor, nel distretto di Jammu.

Il Generale Ahmed Chaudhry ha giustificato l’attacco non come risposta ai bombardamenti in Kashmir e Punjab pakistano, ma rimarcando l’assenza di autorizzazioni all’entrata nello spazio aereo pakistano, adducendo che nessun mezzo militare pakistano ha violato lo spazio aereo indiano. A questi sono seguiti colpi d’artiglieria dagli avamposti pakistani sul confine alla località di Poonch, dove sono dieci i civili indiani morti finora e quarantacinque i feriti.

Risposta militare a cui seguono le dichiarazioni del primo ministro pakistano Shehbaz Sharif che ha bollato l’attacco indiano come «attacco di guerra immotivato, vile e illegale», rincarando la dose nel consiglio di sicurezza nazionale «In conformità con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, il Pakistan si riserva il diritto di rispondere, in autodifesa, nel momento, luogo e modo di sua scelta per vendicare la perdita di vite innocenti pakistane e la flagrante violazione della sua sovranità. Le Forze Armate del Pakistan sono state debitamente autorizzate a intraprendere le azioni corrispondenti a tale riguardo.»

Le possibilità d’uso di armi nucleari sono esplicitate dal Ministro della Difesa pakistano Khawaja Asif, «Se l’India dovesse imporre una guerra totale nella regione e se si presentano tali pericoli, allora da un momento all’altro può scoppiare una guerra nucleare.»

Escalation conseguenza dell’attacco terroristico nella località turistica di Pahalgam, nel Kashmir indiano, del 22 aprile, in cui 26 persone sono state uccise. Massacro eseguito da militanti del gruppo terroristico “The Resistance Front”, affiliato a Lashar-e-Tayyiba, che prima ne ha rivendicato l’attacco e poi è tornato sui suoi passi dichiarando di essere stato oggetto di un attacco hacker. Fin da subito, il governo indiano ha addossato le responsabilità del massacro al Pakistan, secondo Delhi complice e fomentatore di fazioni terroristiche attive nel Kashmir.

«Jai Hind!», vittoria all’India, è la costante in tutte le dichiarazioni delle forze politiche indiane, dai partiti di governo alle opposizioni, che stanno esaltando l’attacco missilistico in nome dell’integrità nazionale. Tra questi anche Rahul Gandhi, leader del partito del Congresso e capo della principale forza di opposizione al Bharatiya Janata Party, si è piegato davanti alla ragione di Stato «Orgogliosi delle nostre Forze Armate. Jai Hind!».

Anche le fazioni comuniste del Communist Party of India e Communist party of India (Marxist) si accodano all’elogio, con comunicati stampa volti a rimarcare l’esigenza di difendere la patria.

Gran parte della società civile indiana, spinta da un sentimento di vendetta verso il vicino scomodo, ha visto rafforzarsi le proprie posizioni in un contesto già fortemente polarizzato. I media principali hanno alimentato questa tensione con campagne nazionaliste, mentre i gruppi della destra hindu-nazionalista hanno usato il massacro di Pahalgam come pretesto per violenze generalizzate contro kashmiri e musulmani. A questa violenza di massa si è aggiunta quella istituzionale, con Narendra Modi che, in un comizio elettorale dello scorso anno, ha definito i musulmani “infiltrati”. Nelle strade del subcontinente indiano si moltiplicano episodi di violenza contro kashmiri e musulmani. Atti incoraggiati dalle dichiarazioni di rappresentanti delle istituzioni, ben rappresentati dalle richieste del ministro del Maharashtra Nitesh Rane di boicottare le attività gestite dai musulmani e dalla piattaforma di ricerca di lavoro per soli hindu “Call hindu” inaugurata dal ministro del lavoro dello stesso Stato Mangal Prabhat Lodha. Atti che portano all’esacerbarsi delle tensioni comunitariste verso i kashmiri, ad oggi accusati di essere complici e collusi con le fazioni terroristiche separatiste.

Il massacro Pahalgam avviene in un contesto di crescente incertezza per i musulmani in India, vessati dalla progressiva perdita di autonomia cultuale e dagli attacchi a persone e proprietà.

Preoccupa la posizione degli hindu-nazionalisti che mirano a una soluzione “alla Israele” in Kashmir. Nelle proteste delle comunità hinduiste a Londra i manifestanti sono scesi in piazza con bandiere israeliane e indiane, rimarcando la vicinanza ideologica e la crescente islamofobia come fattore comune. La condivisione d’intenti è esplicita in uno dei pochi endorsement all’attacco missilistico arrivato dall’ambasciatore israeliano in India Reuven Azar: «Israele sostiene il diritto dell’India all’autodifesa. I terroristi dovrebbero sapere che non c’è posto per nascondersi dai loro crimini efferati contro gli innocenti.». 

Con il governo indiano vittorioso dietro i banner “operation Sindoor”, l’esercito indiano si è fatto promotore di una campagna social di diffusione del riuscito attacco missilistico con le parole «giustizia è fatta. Jai Hind!». La vittoria nei cuori della popolazione è già in tasca per Modi e sodali. Anche il nome dell’operazione è scelto in modo strategico per scatenare una reazione emotiva nella società hindu: il sindoor è il colore vermiglio con cui le donne si tingono la fronte per indicare di essere sposate, polvere colorata che smettono di utilizzare in seguito alla morte del marito. Il riferimento è esplicito all’attacco di Pahalgam dove i terroristi hanno scelto le vittime in base alla propria religione.

Escalation preventivata ed annunciata nei giorni scorsi in vari atti formali e dichiarazioni. Fuor di citazionismo, la ricostruzione è necessaria per contestualizzare il come si sia arrivati dal massacro terroristico di Pahalgam all’escalation bellica di queste proporzioni.

Il governo indiano è passato in poche ore dalle parole ai fatti dopo l’attacco di Pahalgam, dando ordine di espulsione di tutti i cittadini pakistani, dichiarando “persona non grata” personale e ministri dell’esercito, marina ed aviazione, dimezzando il personale all’ambasciata di Islamabad e sospendendo il trattato sulle acque dell’Indo siglato nel 1960. Azione diplomatica forte e risoluta quella del governo indiano, resa esecutiva dal ministro degli interni, Amit Shah, con l’emanazione di una circolare a tutti i governatori regionali per rintracciare i cittadini pakistani in territorio indiano.

Controversa la questione sul trattato delle acque dell’Indo, frutto di una lunga trattativa diplomatica tra i due Stati in cui la Banca Mondiale per gli investimenti ha giocato un ruolo cruciale di mediazione. I fiumi Indo, Chenab e Jhelum sono vitali per il Pakistan, soprattutto per le regioni agricole orientali già martoriate dalla crisi climatica.

La deviazione dei corsi d’acqua, da cui dipende l’80% della popolazione pakistana, potrebbe mettere in ginocchio il Paese, motivo per cui l’India ha scelto questa strategia come contromisura. Il 5 maggio, la riduzione del flusso del fiume Chenab verso il Pakistan ha alimentato timori nel Punjab pakistano, dove la manipolazione idrica è vista come uno strumento per imporre siccità o alluvioni. Inoltre, la mancata condivisione dei dati su portata e qualità dell’acqua accresce le preoccupazioni del governo pakistano. Una rappresaglia idrica che evidenzia come, nell’era della crisi climatica, i conflitti tra Stati possano giocarsi anche sulla deterrenza delle risorse naturali.

Le contromisure pakistane all’offensiva diplomatica precedente all’attacco missilistico della notte tra il 6-7 maggio, sono state grossomodo speculari a quelle indiane. Shehbaz Sharif si è prontamente smarcato dalle accuse di complicità con i gruppi terroristici ed ha recepito le misure adottate dall’India come una sostanziale dichiarazione di guerra. Posizione del premier pakistano che cozza con quella del suo Ministro della Difesa Khawaja Asif che in un’intervista a Sky News ha esplicitato la connivenza del governo pakistano con organizzazioni terroristiche per conto di paesi occidentali «abbiamo fatto questo sporco lavoro per gli Stati Uniti per circa tre decenni, per l’Occidente, e la Gran Bretagna.»

Governo che ha rincarato la dose, aumentando la pressione diplomatica con la sospensione dei trattati di Simla del 1972, siglati dai due Stati dopo la guerra di indipendenza del Bangladesh del 1971, con cui si riconoscevano i confini sulla Linea di Controllo tra Kashmir amministrato dall’India e dal Pakistan.

Più esplicite le dichiarazioni del ministro delle ferrovie pakistano, Hanif Abbasi, «I missili che abbiamo, non sono in esposizione. Nessuno sa dove abbiamo posizionato le nostre armi nucleari in tutto il paese. Lo dico di nuovo, questi missili balistici, sono tutti puntati sull’India.»

Attriti che sono riprecipitati nella sfera economico-commerciale con chiusura dello spazio aereo pakistano all’aviazione indiana, divieto di entrata di corrispondenza dal Pakistan all’India e chiusura dei rapporti economico-commerciali tra i due paesi per decisione unilaterale del governo indiano.

Ai toni alti è corrisposta l’azione militare: dal 25 aprile è iniziato un costante fuoco leggero dagli avamposti pakistani verso soldati dell’esercito indiano, esercitazioni navali ed aeronautiche sono intercorse nei giorni successivi con reciproche dimostrazioni di forza a mezzo test missilistici. Azione militare pericolosa quella tra le due potenze nucleari, armate fino ai denti e mai come ora desiderose di vendetta contro l’altrui governo.

Con le rispettive opinioni pubbliche irregimentate, assetate di vendetta per validare la propria condizione di superiorità militare e politica, il conflitto militare è un’opzione condivisa. Pesano le schermaglie degli anni passati, di cui l’attacco strategico di Bakalot del febbraio 2019 – eseguito anch’esso in risposta ad un attacco terroristico ma con militari indiani come bersaglio – è solo il più cruento precedente; pesano le volontà dei rispettivi governi di fare la guerra per racimolare consenso ed annientare il dibattito politico sul proprio operato.

Le esercitazioni di guerra per civili, annunciate dal Ministero degli Interni per il 5 e 6 maggio, hanno svelato le reali intenzioni del governo: preparare la popolazione a possibili attacchi convenzionali e terroristici su obiettivi simbolici e luoghi affollati. Così, centinaia di migliaia di persone si sono rifugiate sotto i banchi o si sono addestrate a spegnere incendi provocati da esplosivi, pronte a reagire a una minaccia incombente.

La politica internazionale sta a guardare per il momento, conscia dalla gravità dello scontro armato tra le due potenze nucleari nel mondo d’oggi che corre a riarmarsi. A cercare di fare da paciere le richieste di moderazione nell’intervento arrivate da più parti, dalla Cina agli USA, dalla Francia agli Emirati Arabi Uniti. Richieste di facciata, di cui pochi sembrano volersi fare promotori di una pacificazione reale.

L’area indo-pacifica è crocevia degli interessi economico-commerciali internazionali e teatro di esercitazioni militari che coinvolgono forze armate afferenti al blocco NATO. Da qui passa l’accordo commerciale IMEC – corridoio commerciale indo-medio orientale-europeo –, alternativo alla via della seta cinese, cruciale per ridimensionare i rapporti economico, commerciali e diplomatici cinesi.

Immagine di copertina: Wikimedia Commons

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