«Monogramma» di Odisseas Elitis

di Osvaldo Soriano

Certo – il Destino, ancora una volta darà il Tempo agli uomini di amarsi ancora –, sotto sferzanti ellissi di luce e avvolgenti bagliori appena nati dal giorno nel suo eterno alternarsi alle tenebre notturne. Odisseas Elitis è sicuro: «l’innocenza colpirà il mondo», nonostante «l’acre nero della morte». Profondo e inimitabile canto del verso amoroso, il «monogramma» ha il senso dell’indicibile, specchiato e avvolto nelle bluastre acque dell’Egeo dal moto/immortale. Irriducibile, l’amore sopravvive, nel Paradiso di un’idea irrinunciabile, inappagante, insolita, che sublima la solitudine perché una sola volta – nell’intera esistenza, è dato attraversarlo.

Elitis ci parla d’amore – cantore di un’arca perduta, perché sa «sfogliare i gelsomini», e sa portare la sua donna «attraverso paesaggi luminosi e segreti porticati del mare», dove si trovano «alberi ipnotizzati con ragnatele inargentate». E in questo angolo del mondo non vi è lotta fra la luce e l’ombra, ma nella complicità e consapevolezza si appartengono gli opposti. Niente può eguagliare il rampicante che si inerpica sulle pareti sospese fra «rose intrecciate», il sentimento si compie alla stregua di un’ultima luminescenza al tramonto di un indimenticabile abbraccio. Il poeta nutre la sua arte con insolite profondità, disprezza ogni dimensione che appartenga all’inutile esercizio delle parole vuote, fugge da qualsiasi chiarore in superficie, abbandona ogni buio che sia la prova di una banalità.

La convinzione che anche le onde parlino di lei è segno inconfutabile di assoluto dominio di ogni follia sul mondo: il gesto si compie ai piedi delle immutabili eterne Cariatidi. Sotto il loro sguardo austero si rimane per sempre a sorvegliare i cieli e i mari che rimbombano di assurdi venti di tragedia. Il verso è puro e indimenticabile, doloroso fino allo stremo, acuto nel vortice della parola che si tramuta senza miracoli e vane retoriche in amore: «Verrà giorno, mi senti / che ci seppelliranno e poi, dopo migliaia di anni, mi senti / non saranno che pietre lucenti, mi senti». Il Paradiso doloroso è concesso solo a chi nutre memoria del proprio amore, ritrovato, riemerso, riannodato alle linee oblique del mondo, sull’indifferenza degli stolti, l’inconsapevolezza dell’utilità dell’inutile.

Ogni passo è un attraversamento di sentieri in fondo al cuore, palpiti assurdi, incoscienti e coscienti in una corsa senza fine; il giardino non sfiorisce, il vento non ostacola lo sguardo, la luce non ingombra gli spazi, neppure quelli più vicini, né la preghiera dei giorni avversi piegherà la sete di un solo bacio, neppure con la morte si spegne ogni secondo vissuto insieme. Eppure una tristezza, un riverbero di angoscia sembra poggiarsi sulle guance bianchissime, sui piedi adagiati in acque incolori, sugli occhi dipinti su una pergamena antica. È solo un attimo, un fragile ondeggiare nel petto di chi vive in asperità e profonde gole scavate giorno dopo giorno in abbracci e folli mani che si avvinghiano.

Ecco l’odore: il senno sembra evaporare o instillarsi come rugiada sulle foglie piegate in canali di stoffa verdissima, vince su ogni presagio di morte. Il corpo è l’incandescente rovina bruciata dal barbaro, resiste, è la pietra intonsa, il muro di cinta, il colonnato sul dirupo mai più raggiungibile, il ristoro degli dèi di ieri, la foglia d’acanto, il celeste solco dell’antica icona del santo, lo scuro fondale che palpita di vortici e palpebre di erbe marine, è la parola. Incanto e testimonianza, il pianto si spegne al primo vagito dell’alba che insanguina l’orizzonte del mare, e sopra gli spuntoni degli ultimi faraglioni invincibili alle tempeste degli strazianti addii, ecco diramarsi il canto – vela azzurra sospinta da voci mai udite.

Non ci resta che raccogliere sull’altra riva – i quattro crisantemi sparpagliati dalle quattro ali del vento; che siano forse – crisalidi oppure orchi o anatemi ad allontanarti dal greto di luce appena smarrito sui tuoi passi biancoverdi del primo mattino. Indugia – intanto, sulle labbra aperte come uno scrigno: e dai polsi fino al tendine d’Achille: tutto ciò che arde di follia si sveste. Lì – dal respiro posa il silenzio in bella mostra, solo l’ansimare bisbiglia gli assalti. Vieni, dormi – la luna capovolta veglia sul clamore del mondo. Nulla sarà mai più come prima, di questo si è certi, sulla soglia-del-giorno-che-verrà; l’ineluttabile l’inesorabile l’irripetibile: di questo si tratta. Allora/ contempleremo, sotto lo sguardo fermo delle cariatidi, là pianteremo il fiore del deserto – sulla pietra levigata il senno del poi (sulle metope il sole s’abbatte come sulle nostre mani).

«Di te ho parlato in tempi lontani / con esperte nutrici e vecchi partigiani»: è così che si vive nella polvere di questo mondo, sui suoi capelli folti come cedri nerissimi e densi alla stregua di nuvole in tempesta; l’arco appena curvo sui cuori intonsi colpisce l’inedia di un sonno lunghissimo. È nei nostri spiriti l’apparizione più strabiliante che si veste di merletti bianchissimi come nei giorni di festa: l’incanto mai tradisce, rincorre la vita in quel luogo non più disperato e coglie il calicanto intoccabile anche dal gelo.

Ti guardo, mi guardi: un’eco senza riverberi è il canto che attendevamo. Quando i mostri sono domati è tempo di partenze, le vele si spiegano, la notte di un viola che mai avevamo visto mi sospinge verso il dove che a lungo avevamo costruito brandendo coraggio e felicità indicibili. Non ci sono addii, malinconie, rimpianti, non ci sono segni del destino, incontri furtivi, fughe e ritorni. Non c’è cielo o terra oltre il senso dell’unico indicibile amore. Non resta che attendere il tuo silenzio cucito sui mille frammenti d’argento.

– Variazioni poetiche su un testo di Odisseas Elitis, Monogramma, a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli Editore, Roma 2000.

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