
Di Cinzia DM per ComeDonChisciotte.org
Dico spesso che, paradossalmente, bisogna essere “fortunati” persino nel subire una guerra: se a bombardarti è l’Arabia Saudita nello Yemen – con decine di migliaia di vittime dirette e un disastro umanitario di proporzioni immani – nessuno si mobilita, nessuna piazza si riempie, nessun editoriale invoca giustizia. Se invece sei palestinese e a colpirti è Israele, allora l’attenzione globale si accende all’istante: le piazze si muovono, i governi prendono posizione, i media raccontano ogni dettaglio. Non perché la tua sofferenza sia più grande o più ingiusta, ma perché è più funzionale: la questione palestinese non interessa davvero per la sua realtà storica o umana, ma per la sua utilità simbolica e politica.
Se ci fosse una volontà autentica di risolverla, qualcuno si chiederebbe come mai la Giordania abbia concesso la cittadinanza solo a una parte dei palestinesi fuggiti nel 1948, lasciando molti altri in una condizione di apolidia, oppure perché, a oltre settant’anni di distanza, esistano ancora campi profughi che avrebbero potuto essere smantellati da decenni. La verità è che quei campi servono: servono a mantenere aperta la ferita, a perpetuare il simbolo, a fare della Palestina non un problema da risolvere, ma un eterno strumento di mobilitazione e controllo.
Il conflitto israelo-palestinese è diventato così uno specchio delle ipocrisie globali: un dramma reale trasformato in scenografia politica, uno strumento per alimentare identità contrapposte e consolidare poteri, più che per tutelare diritti o costruire pace. E mentre lo sguardo del mondo resta fisso su Gaza, le guerre dimenticate, le dittature alleate, le crisi sistemiche continuano indisturbate, invisibili, perché non servono a nessuno.
La centralità della questione palestinese nel discorso pubblico globale va compresa non solo come il riflesso di un dramma storico reale, ma come il sintomo di un meccanismo più profondo che intreccia geopolitica, ideologia e psicologia collettiva. Da decenni quel conflitto rappresenta un terreno privilegiato su cui potenze, media e opinioni pubbliche proiettano le proprie categorie morali: oppressore e oppresso, vittima e carnefice, giustizia e violenza. È un teatro simbolico in cui l’Occidente cerca di riaffermare la propria narrazione storica e morale e il cosiddetto Sud globale vi proietta nuove forme di identità e di legittimazione, mentre gli attori regionali lo impiegano come strumento per ridefinire i propri equilibri di potere. Ma è anche, e forse soprattutto, una valvola di sfogo: un tema moralmente chiaro e politicamente sicuro su cui convogliare indignazione, appartenenze e illusioni di partecipazione, mentre le questioni strutturali ¬ la concentrazione del potere, la crisi del modello economico, la trasformazione antropologica ¬ restano ai margini del dibattito pubblico, escluse dal campo effettivo della discussione collettiva.
Questa dinamica rivela un tratto tipico delle società spettacolari di cui parlava Guy Debord¹: la tendenza a sostituire la complessità con simboli facilmente manipolabili, a costruire consenso attraverso rappresentazioni semplificate. L’uomo contemporaneo, descritto da Byung-Chul Han², è immerso in un orizzonte di trasparenza e saturazione che anestetizza l’esperienza e la priva della sua profondità. Allo stesso tempo, come ammonisce Noam Chomsky³, la selezione e la ripetizione ossessiva di determinati temi orienta l’agenda, disciplina l’opinione pubblica e distoglie lo sguardo dai veri centri del potere. Così, mentre il conflitto israelo-palestinese continua a produrre tragedie reali, la sua sovraesposizione opera anche come strumento di distrazione e di controllo simbolico.
In questa ambiguità – tra verità storica e uso politico, tra compassione autentica e manipolazione mediatica – si misura forse una delle più grandi ipocrisie del nostro tempo: quella di un mondo che grida per la giustizia in Palestina, ma tace di fronte ai meccanismi sistemici che alimentano ogni forma di oppressione.
Tutto questo accade in un tempo in cui l’uomo, svuotato della sua profondità spirituale e privato di appartenenze autentiche, è divenuto più esposto e vulnerabile al potere come non lo era mai stato. La modernità lo ha reso manipolabile: incapace di pensare fuori dal perimetro del consentito, docile nell’accettare narrazioni prefabbricate, disposto a chiamare libertà ciò che è soltanto scelta tra opzioni già decise. In questo orizzonte, il conformismo non è più una patologia sociale: è la condizione normale dell’esistenza politica. La logica che regge questo ordine è antica: divide et impera. Ma oggi essa assume forme più sottili. Non si divide più soltanto per governare, ma per neutralizzare ogni potenziale di cambiamento. Identità artificiali e contrapposizioni ideologiche vengono coltivate per impedire la nascita di un linguaggio comune del dissenso, per spezzare in frammenti ciò che potrebbe diventare forza collettiva. Così, il conflitto orizzontale ¬ tra poveri e poveri, tra oppressi e oppressi ¬ diventa lo strumento più efficace per mantenere intatto l’ordine verticale. In questo contesto, il vero dissenso, quello che mette in discussione le fondamenta, che interroga le premesse stesse del potere, non viene più represso con la forza. È silenziato, marginalizzato, deriso, delegittimato. Chi osa porre domande radicali viene spinto ai margini del discorso pubblico, confinato nella caricatura dell’estremismo o del complottismo, finché la sua voce perde peso prima ancora di essere ascoltata. È così che si spegne il pensiero critico: non con la censura esplicita, ma con l’isolamento sistematico.
Ciò che muove le coscienze è la sofferenza in sé, nella sua nuda evidenza, nel suo potere di scuotere e smuovere. Ed è proprio per questo che il potere la utilizza non per risolverla, ma per incanalare la reazione che essa suscita: la trasforma in un’emozione collettiva immediata, spesso superficiale, che non scava né mette in discussione l’ordine esistente. Così la sofferenza, invece di aprire varchi di consapevolezza e cambiamento, diventa il catalizzatore di una risposta epidermica, controllabile e sterile.
Il paradosso più sottile e inquietante del nostro tempo è che il dolore è ovunque, ma non entra quasi mai dentro le persone. Resta sulla pelle: lo si indossa per un giorno, lo si grida in piazza, lo si trasforma in slogan o in bandiera, ma raramente diventa conoscenza interiore, coscienza profonda, principio di trasformazione. È un dolore che non scava, che non scardina, che non cambia nulla, un dolore epidermico, reattivo, destinato a dissolversi non appena l’attenzione collettiva si sposta altrove. Questa superficialità dell’esperienza non è casuale: è l’emblema di un sistema che privilegia l’emozione al pensiero, la reazione al giudizio, l’immediatezza alla profondità. Il dolore autentico, quando si radica, è pericoloso: interroga le cause, mette in discussione l’ordine, apre fratture nella continuità del potere. Ma un dolore superficiale è innocuo: canalizzato, prevedibile, temporaneo. Può persino essere utile, perché dà l’illusione della partecipazione senza produrre cambiamento reale. Eppure proprio il dolore, quando non è ridotto a segnale o pretesto, può diventare porta: porta verso la conoscenza di sé e del mondo, verso la consapevolezza che la sofferenza non è soltanto qualcosa da evitare ma da comprendere e attraversare⁴.
Il dolore che ci attraversa ci mette in relazione con l’altro, ci obbliga a interrogarci sulle nostre responsabilità, ci restituisce alla dimensione profonda dell’umano. Solo se lo lasciamo entrare, esso può diventare il principio di una trasformazione reale.
Il dolore, quando viene catturato e organizzato, perde la sua natura originaria e diventa linguaggio del potere. Non è più esperienza che interroga, ma strumento che orienta. E così, ciò che dovrebbe spezzare le strutture del dominio finisce per esserne inglobato, diventando parte della loro grammatica.
Nel tempo, le società hanno imparato che nulla è più utile di una ferita permanente: non solo mantiene viva la memoria, ma fornisce una fonte inesauribile di legittimazione, consenso e disciplina. La sofferenza collettiva diventa allora una sorta di infrastruttura politica: non qualcosa da curare, ma da amministrare; non una realtà da trasformare, ma da gestire.
Questa logica, portata alle sue estreme conseguenze, mostra il volto più inquietante del potere contemporaneo: la capacità di trasformare persino l’ingiustizia in ordine, la tragedia in sistema, la protesta in stabilità. È qui che la questione palestinese ¬ come altre ferite irrisolte della storia ¬ rivela il suo significato più profondo: non è soltanto il simbolo di una violenza non sanata, ma la prova di quanto la violenza possa essere resa funzionale al suo stesso perpetuarsi.
Una ferita chiusa non mobilita più passioni, non alimenta identità, non giustifica strategie. Una ferita guarita costringerebbe a ripensare l’ordine, a redistribuire responsabilità, a ridefinire equilibri consolidati. Per questo è necessario mantenerla aperta: abbastanza sanguinante da suscitare empatia, abbastanza irrisolta da restare utile.
I campi profughi, che avrebbero potuto scomparire da decenni, ne sono il simbolo più eloquente: monumenti viventi a una condizione che non deve cambiare, pena la perdita della sua potenza politica.
Questa logica si riflette anche nelle vite individuali. Ricordo le parole di un amico che, ai tempi dell’università, mi raccontava di una ragazza a Gaza: non le era stato permesso lasciare la Striscia, come accade a moltissimi abitanti, soggetti a restrizioni arbitrarie e a permessi difficili o impossibili da ottenere. E anche se un giorno l’autorizzazione fosse arrivata, che senso avrebbe avuto? Quando la tua vita è ormai radicata in un luogo, quando hai figli, legami, responsabilità, dove dovresti andare? In molti casi non esiste più un “fuori” a cui tornare: l’immobilità si è già trasformata in destino.
Sì, questo è accaduto e accade ancora oggi. Vivere a Gaza significa, per la maggior parte della popolazione, non poter uscire liberamente. Dal 2007, quando Hamas ha preso il controllo della Striscia, la chiusura è divenuta pressoché totale. Israele controlla i confini, lo spazio aereo e le acque; l’Egitto sigilla il valico di Rafah. Chi desidera partire ha bisogno di permessi quasi impossibili da ottenere. La maggioranza resta intrappolata in un territorio minuscolo e sovraffollato, uno spazio che la stessa ONU ha definito “prigione a cielo aperto”. E qui nessuno è innocente. Israele giustifica il blocco come misura di sicurezza; l’Egitto coopera per ragioni strategiche; Hamas scoraggia spesso l’uscita dei giovani perché l’emigrazione indebolirebbe la narrativa della resistenza e svuoterebbe Gaza della sua forza simbolica.
A questa dinamica si aggiunge, più indirettamente ma non meno emblematicamente, anche la Giordania. Pur non confinando con Gaza, controlla ¬ insieme a Israele ¬ l’unico valico terrestre della Cisgiordania verso l’esterno, il Ponte Allenby, sottoponendo i palestinesi a procedure complesse, permessi difficili e restrizioni severe. Al tempo stesso, ha scelto di concedere la cittadinanza solo a una parte dei profughi, lasciando molti in una condizione di precarietà giuridica e sociale. Dietro questa politica ambivalente pesano tanto i timori interni ¬ oltre metà della popolazione giordana è di origine palestinese ¬ quanto le alleanze strategiche con Israele e Stati Uniti. Anche così, in modo meno visibile ma non meno efficace, si perpetua la condizione di sospensione e di immobilità di un popolo che sembra destinato a non avere mai davvero un “fuori” a cui tornare.
Questa immobilità non è un effetto collaterale: è parte integrante della strategia. Il popolo di Gaza resta intrappolato perché la sua presenza ¬ confinata, sofferente, senza via di fuga ¬ serve alla narrativa e al potere di tutti gli attori coinvolti. In questa gabbia collettiva si intrecciano anche dinamiche sociali: matrimoni precoci, vincoli familiari, povertà diffusa. A un certo punto molti sono già legati a una vita da cui non possono più fuggire. Oggi, poi, nel pieno di una guerra feroce e di bombardamenti incessanti, la chiusura è pressoché totale: lasciare Gaza è di fatto impossibile.
E tuttavia, accanto a quella sofferenza concreta e devastante, si staglia un’altra realtà, amara e sottile, ma non meno rivelatrice: la nostra incapacità di lasciarci toccare davvero. Quel dolore ci attraversa lo sguardo ma non ci entra dentro, lo trasformiamo in gesto, in parola, in piazza, ma raramente in coscienza. Rimane esterno, resta reazione, non diventa mai principio di comprensione o di cambiamento. È in questa distanza, tra chi soffre e chi osserva, che si manifesta il limite più profondo della nostra epoca.
E tuttavia, proprio in questa perversione si apre la possibilità di un pensiero critico autentico. Riconoscere che il dolore può essere strumentalizzato significa anche sottrarlo a questa logica: non celebrarlo, non idolatrarlo, ma restituirgli il suo statuto di interrogazione radicale, che non cerca consolazione, ma pretende cambiamento, che trasforma la ferita in domanda politica.
Perché finché il dolore rimarrà solo rappresentazione, non cambierà nulla. Solo quando tornerà ad essere realtà inassimilabile, scandalo irriducibile, potrà di nuovo incrinare ciò che oggi appare immutabile. In quella incrinatura, sottile ma decisiva, si misura la possibilità stessa di una storia diversa.
Ed è qui che nasce un’amarezza profonda, che non è rassegnazione ma consapevolezza: la sensazione che ciò che dovrebbe accadere ¬ un risveglio, una rigenerazione, una metamorfosi dell’umano ¬ difficilmente accadrà. Eppure questa consapevolezza non può far rinunciare al dovere di continuare a ‘pensare’, denunciare, resistere. È un pensiero che sa che il mondo non cambierà, ma non smette di desiderare che accada. E in questa tensione sospesa — tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere — si cela forse la forma più alta della verità.
Ricordando che ogni trasformazione parte dall’uomo, da noi, da ciascuno.
Di Cinzia DM per ComeDonChisciotte.org
10.10.2025
NOTE
- G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini+Castoldi, Milano, 1997 (ed. orig. 1967).
- B.-C. Han, La società della trasparenza, Nottetempo, Roma, 2014.
- B.-C. Han, Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Roma, 2016.
- Eschilo, Agamennone, vv. 177: πάθει μάθος (pathei mathos, “attraverso la sofferenza, la conoscenza”). Il celebre verso, che riassume uno dei principi fondamentali della tragedia greca, esprime l’idea che la conoscenza autentica – quella che trasforma l’uomo e lo conduce a una consapevolezza più profonda di sé e del mondo – non nasce dall’astrazione o dall’esperienza felice, ma dal dolore e dalla prova. È solo attraversando la sofferenza, infatti, che l’essere umano rompe l’illusione, conosce il limite e si apre alla verità.
- N. Chomsky – E. S. Herman, La fabbrica del consenso. L’economia politica dei mass media, Il Saggiatore, Milano, 2002 (ed. orig. Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media, Pantheon Books, New York, 1988).